RIVISTA - PIEGHEVOLE DI FILOSOFIA, ARTE, CULTURA

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Idea e Grafica di Cecilia M. Giampaoli e Carlo M. Cirino

martedì 11 maggio 2010

Elephant di G. Van Sant, 2003 (di A. Zaffini)

Elephant costituisce il capitolo centrale di una trilogia che comprende anche i film Gerry e Last Days, pellicole di soggetto diverso, accumunate dalla presenza della morte: un finale annunciato che si determina quasi meccanicamente dalle prime riprese, culmine di un climax e momento di composizione del tutto. Tutte e tre si ispirano a fatti di cronaca, tutte e tre posano lo sguardo, coraggiosamente, là da dove nessuno è tornato per raccontare – nel nostro caso, la giornata di alcuni ragazzi prima e durante il massacro della Columbine High School.

L’occhio della cinepresa segue i movimenti dei personaggi con lunghi piani sequenza, e arriva tante volte a inquadrarne la nuca, il viso, quasi a voler spiare le loro vite; non ci sono musiche
(ad eccezione di per Elisa di Beethoven, eseguita da uno dei due carnefici), la colonna sonora si compone di rumori esterni che si sovrappongono, e i nomi dei ragazzi ce li rivela una scritta bianca che appare su sfondo nero. Eppure, nonostante gli sforzi per calarsi nella realtà di ciò che accade, resta l’impressione di guardare da fuori: lo spettatore si trova gettato in una molteplicità di esistenze che si incrociano per caso, en passant, senza rivelarsi pienamente, né chiarire il movente delle proprie azioni. E’ impossibile dar respiro a una narrazione: le categorie di spazio e di tempo vengono scardinate, dilatate, alcune scene si ripetono cambiando punto di vista, tutto è già stabilito prima di accadere. Ciò che conta sono gli istanti – quei brevi istanti su cui la cinepresa torna più volte, quasi stesse cercando di documentarsi su fatti già avvenuti, senza tuttavia capirne il senso.

Il tema della fotografia è centrale nel film, una metafora della stessa indifferenza “scientifica” con cui l’obiettivo della telecamera interroga l’accaduto: alcune scene rallentano fino a “fissare” determinate inquadrature; in più uno dei ragazzi è fotografo (lo vediamo spesso al lavoro) e riesce ad immortalare Alex ed Eric appena prima che diano inizio alla strage. Da questo momento, lo sguardo che passava freddamente da un episodio all’altro è costretto a concentrarsi tutto su una vicenda: i corridoi si svuotano, si sentono grida, spari, esplosioni, ci sono cadaveri.
L’atmosfera placida e luminosa dell’High School viene rivoltata in un battibaleno, si fa tetra, tesa, tempo e spazio riprendono le loro consuete proporzioni e tutto accade maledettamente in fretta.
Assistiamo all’eliminazione di quasi tutte le altre vicende; la telecamera si focalizza su un personaggio nuovo, ma torna quasi subito sui due assassini, vede brutalmente abbattere gli altri protagonisti.

Alex ed Eric, carnefici, sembrano a loro volta prede di un nichilismo radicale che impedisce loro di distinguere ciò che è divertente da ciò che è mortalmente serio (sono ingenui, parlano e agiscono come se vivessero in un videogioco, sono attratti dal nazismo, e poco prima della strage si dicono eccitati: “allora, oggi si muore”). L’assenza di senso dell’universo attorno ai due contrasta con il rigore e la lucidità del loro piano (che, tuttavia, continua a non avere un perché). E’ come se i due ragazzi facessero convergere (distruggendole) tutte le esperienze altrui nella propria, e in essa unificassero la molteplicità caotica di vite e destini presente nel resto del film. Ma non vogliono solo, banalmente, diventare gli unici protagonisti: eliminando per ultima la loro stessa vicenda, avranno creato una sorta di terrificante Assoluto.

“Mai ho visto un giorno così brutto e così bello” ammette Alex, il fucile in braccio e gli occhi sognanti, mentre si aggira entusiasta tra il terrore e la devastazione che ha provocato.
A questo punto, però, la freddezza della telecamera sembra venir meno, e chi la manovra forse non vuole più guardare: l’ultima scena rimane senza conclusione, appare un cielo nuvoloso, echeggiano ancora le note di per Elisa, ma degli strani rumori contaminano la melodia. Entrano i titoli di coda. L’idea che si possa realmente comprendere ciò a cui si è appena assistito deve abdicare davanti a un vuoto così spaventoso.
Eppure, sembra volerci dire il titolo del film, distogliere lo sguardo sarebbe come non voler vedere un problema ingombrante e pericoloso, pachidermico.

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